A proposito di “Il mercato del lavoro italiano prima e dopo il jobs act”, con particolare riferimento al prima

Rodano, in questa ampia nota sul prima e sul dopo il jobs act, fa un discorso molto articolato partendo, giustamente, dal mercato dei beni per valutare gli effetti delle norme sull’occupazione. Per cui il mercato del lavoro non sarebbe altro che una derivata del mercato tout court, e il discorso sarebbe ineccepibile se il mercato fosse soltanto domestico e non globale, come oggi è.

E, se il mercato dei beni è globale, si deve in certo qual modo globalizzare anche il mercato del lavoro, per consentire ai lavoratori nostrani (quelli che sono qui, non quelli che sono di qui), pur con gli opportuni temperamenti, di competere con i lavoratori di altrove. Non si tratta più di aumentare/diminuire garanzie/tutele, si tratta di consentire opportunità.

 

«Sappiamo per esempio che gli Stati Uniti sono usciti in tempi relativamente rapidi dalla Grande Recessione degli ultimi anni perché hanno portato avanti con energia l’impegno di sostenere la domanda aggregata, sicché la loro economia è di nuovo in crescita e la disoccupazione (che era cresciuta dopo il 2008) appare in netto calo» ci dice Rodano ma noi sappiamo anche che la disoccupazione USA cala anche in virtù delle caratteristiche del loro mercato del lavoro.

 

Rodano giustamente parla di fallimento del mercato, a proposito del mercato del lavoro, richiamando la doverosa regolamentazione dello stesso e l’opportuno intervento istituzionale volto a migliorarne le dinamiche ma non considera che, forse, il fallimento non è del mercato ma della regolazione o, meglio, della iper-regolamentazione, tanto che si potrebbero avere migliori risultati anche semplicemente con una riduzione di questa. Allora si vedrebbe se il mercato fallisce.

 

E il riferimento ai contratti, che Rodano considera obbligato, per la definizione del prezzo del lavoro non è meno distorsivo, anche se ovviamente risente di tutta la nostra annosa cultura giuslavoristica e sindacale e anche se è perfettamente vero «che i contratti di lavoro esistono perché entrambe le parti li preferiscono (sia i lavoratori che le imprese ottengono un guadagno quando regolano i loro rapporti con questo strumento)», con il solo dubbio sul tempo del verbo.

 

Ovvero se non sia più giusto dire li “preferivano” quando la retribuzione o, meglio, tutta la retribuzione con la sua tradizionale caratteristica di irriducibilità e tendenziale crescita, poteva assolvere ancora quella funzione assicurativa che Rodano richiama, con una corretta ricostruzione storica. Senza contare che, invece di contratti nazionali, a cui Rodano allude, potrebbero darsi contratti di lavoro aziendali.

 

Facendo un po’ di storia, come fa Rodano, si riparte dall’accordo interconfederale del 1947 ma non si dice che l’accordo, parlando di licenziamenti, diceva che «la Direzione della azienda e la Commissione interna, su richiesta di questa ultima, esamineranno con spirito di mutua comprensione i motivi del licenziamento e le possibilità concrete e attuali di evitarlo senza costituire un carico improduttivo per l’azienda» e che tutta la procedura doveva esaurirsi in 3 settimane.

 

Certo è che la differenza si marca con la legge n. 604/1966 quando, pur riprendendosi i termini dell’accordo interconfederale del 1965, si da adito ma senza arrivare alla reintegrazione, salvo i casi di discriminazione, al sindacato giurisdizionale, che poi assumerà le dimensioni dirompenti che conosciamo con l’art. 18 della legge n. 300/1970 e la reintegrazione anche senza la discriminatorietà.

 

Quindi, se è vero che, leggendo le norme, si vede una consequenzialità continua e coerente, andando a guardare la lettura e la conseguente applicazione delle norme che, a mano a mano, è stata fatta dai vari soggetti responsabili e, soprattutto, dai giudici, si potrebbe vedere un ben diverso film.

 

Del resto Rodano si chiede come mai le imprese finirono per accettare lo Statuto dei lavoratori, con il suo art. 18, «senza praticamente fare opposizione», e non si risponde che furono le “grandi” imprese ad accettarlo, perché avevano bisogno di pace e perché, miopemente, non si aspettavano la giurisprudenza che ne seguì.

 

E, di là dalla classica governatività confindustriale, non fu previsto che si sarebbe aperto, come si è potuto riscontrare in seguito, un ulteriore livello di contrattazione non contrattuale del sindacato istituzionale, o delle sue frange dissidenti, attraverso i ricorsi, anche mirati, a quel gruppo di magistrati riformisti o rivoluzionari – pretori d’assalto – che furono i giudici del lavoro.

 

Nel suo approccio correttamente, per quanto schematicamente, economicistico Rodano non tiene conto del clima del periodo degli anni ‘7o del ‘900, quando fu tristemente ricorrente lo slogan “colpirne uno per educarne 100” e, così, di là dalle tristi vicende registrate nella giurisprudenza da quel momento in avanti, c’è la non meno triste vicenda di una imprenditoria intimidita.

 

Una imprenditoria non afflitta da una sindrome di Peter Pan, ma curata a bonsai da una mano invisibile che tagliava le sue radici di sviluppo, piegava i suoi rami di azione organizzativa, cambiava il suo vaso di territorio e elargiva irrigazione creditizia con attenzione alla omologazione e al rispetto delle convenienze collettive, piuttosto che alla qualità delle idee imprenditoriali.

 

Rodano giustamente richiama l’effetto deterrente dei costi di separazione imponderabili, per effetto del combinato disposto dell’art. 18 e della sua applicazione concreta da parte della magistratura, che la legge stabilisce soggetta soltanto alla legge che, però, va interpretata, e non considera l’aspetto psicologico di vicende di tipo kafkiano.

 

Chi ha vissuto tutta la sua vita nelle aule universitarie senza avere contatto con le aziende, piccole e medie, e i titolari di queste comprensibilmente può faticare a comprendere l’insieme dei sentimenti che possono agitarsi in queste persone che, prevalentemente, in buonissima fede non pensavano ad altro che a mandare avanti la loro impresa a beneficio, ovviamente, loro e delle loro famiglie, ma anche di tutti i loro collaboratori.

 

Perciò non è stato soltanto il costo di separazione che ha sempre atterrito, come ha atterrito e talvolta fatto fallire aziende, quello che ha sempre atterrito di più è stato il rischio di vedere le proprie, pretese ma convintamente, buone ragioni smentite da un giudicante avulso dalla vita del lavoro, e un licenziato che poteva rientrare trionfante nell’azienda, a minare, se non a distruggere la loro autorità o, meglio, autorevolezza proprio come imprenditori e “capi”.

 

Non a caso Rodano, richiamando le asimmetrie informative produttive di fallimenti di mercato, pur non rammentando le ridicolmente brevi durate dei periodi di prova previste dai contratti e la pregressa demonizzazione dell’apprendistato, sottolinea la tendenza imprenditoriale italiana verso gli investimenti in macchinari e automazioni varie, a scapito degli investimenti in capitale umano e, quindi, dell’occupazione.

 

«Perciò, in una situazione in cui la normativa scaturita dallo Statuto dei lavoratori irrigidiva le possibilità d’uso della forza lavoro da parte delle imprese, queste ultime hanno reagito cercando di recuperare altrove i margini di flessibilità perduti» – continua giustamente Rodano – da un lato con la meccanizzazione possibile e dall’altro lato con “vie traverse”, finché la legge – Treu prima e Biagi poi, lavorando ai margini – non è venuta a dare un po’ di ordine e di disciplina a queste traversie.

 

Ora è comprensibile che il giurista aulico e il cattedratico economico non si ponga la domanda, ma il sindacalista imprenditoriale può farlo: ma perché una persona che decide di impegnare se stesso e le proprie risorse, fisiche e intellettuali, prima ancora che economiche e finanziarie, deve cercare e seguire vie traverse per avviare, condurre, sviluppare la propria impresa? Dalla quale possono derivare benefici anche per tanti che analoghe energie o disponibilità non hanno?

 

Jobs act o meno, comunque lo si voglia guardare, ci vorranno degli anni prima che i piccoli e medi imprenditori italiani si riprendano da questa lunga stagione di mortificazione e, fortunatamente, malgrado la ingravescente miopia del sindacato italiano e la (corrispondente?) presbiopia dei cattedratici, è possibile che siano i nuovi lavoratori, i giovani che studiano e hanno voglia di lavorare, che potranno contribuire maggiormente a questa rinascita.

 

Certo è che se bisognava uscire, come era ormai tempo, da un mercato diviso tra lavoratori protetti e non protetti, non si poteva, oggi come oggi, uscire proteggendo tutti, quando nessuno può dirsi indenne dalle conseguenze del mercato globale. Allora sarebbe stato meglio non proteggere più nessuno e cercare, finalmente, di far nascere un vero e proprio mercato (libero) del lavoro.

 

Perché è assolutamente vero che il contratto di lavoro a tempo indeterminato è da preferirsi, sia da parte del lavoratore che da parte dell’azienda, perché rappresenta l’occasione di un impegno e di una crescita reciproci, ma bisogna sempre vedere come questo impegno e questa crescita, condivisi e ricercati insieme, poi si riscontrano e che cosa può derivare da un tale riscontro.

 

Alla fine il meglio che possiamo fare a proposito della nuova legge, non è guardare tutte le insufficienze e le occasioni ancora non colte, ma prenderla, come anche Rodano fa e Ichino ha fatto, come un primo passo avanti, da verificare sperimentando, anche nello spirito della Carta di Lucca, per poter arrivare, prima o poi, al lavoro come variabile dipendente dal mercato.

 

* Saggio di Giorgio Rodano, aprile 2015 – L’Autore insegna macro-economia all’Università “La Sapienza” di Roma.

 

Antonio M. Orazi

ADAPT Professional Fellow

@occamorazi

 

 

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